Biografia 1969-1975
Tenta di stabilire un’intesa col Presidente del Consiglio Rumor su alcuni temi ed interventi che sembrano a L. di assoluta priorità: il rapido deterioramento della finanza pubblica, che richiede da parte delle principali forze politiche e sociali la coscienza della gravità d’una situazione alla quale si deve porre rimedio; la personale contrarietà a varare una riforma delle pensioni ad inizio legislatura e non alla fine, con il rischio di creare aspettative eccessive; il disappunto per una politica scolastica e universitaria che negli ultimi anni è stata insufficiente – e la cui debolezza ha contribuito ad infiammare le proteste studentesche – e che va rilanciata; infine la richiesta di modificare il metodo della concertazione, considerato inadeguato alla nuova fase economica che il paese sta vivendo.
A tal proposito, in una lettera aperta inviata a Rumor nel febbraio, L. ritiene non più prorogabile una «politica di sacrifici e austerità», che i partiti e soprattutto la maggioranza di governo devono proclamare razionalmente, al fine di «parlare chiaro al Parlamento, ai sindacati e al Paese. […] Un discorso chiaro e franco da parte Tua, che dica che lo Stato è arrivato ormai al limite, è necessario» (VR, 15 febbraio 1969). Già il 3 gennaio, peraltro, in una missiva a Indro Montanelli, L. evidenzia che «l’Italia ha compiuto enormi progressi economici dopo la seconda guerra mondiale, ma questi progressi sono serviti moltissimo ad esaltare le condizioni individuali, assai poco a cambiare il volto del Paese, dal punto di vista di alcuni fondamentali valori di civiltà […]. La programmazione doveva rovesciare quest’ordine di marcia, per cui il consumo e la pretesa individuale hanno fatto costantemente premio sulle necessità collettive e chiamare tutti i ceti italiani, a partire dai ceti borghesi, a una diversa impostazione dei problemi di sviluppo della società nazionale»; in sintesi, quindi, è urgente «uscire dall’egoismo individuale, e dedicarsi ai problemi da cui riceve caratterizzazione una civiltà; sacrificare l’oggi per un più grande, civile e sicuro domani; creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati» (in Soddu 2008, p. 283).
Proprio per queste sue convinzioni, anche dinanzi al permanere di annosi problemi, ritardi e questioni insolute nell’ambito della sinistra italiana – in particolare la rapida decomposizione del PSU, con il conseguente ritorno alla divisione fra PSI e PSDI, nonché la revisione politica e dottrinale del PCI, tutt’altro che terminata e troppo timida – sulle quali L. è intervenuto più volte in passato, egli non evince la possibilità di accarezzare, da parte del PRI, ipotesi neocentriste o, peggio, d’un «blocco d’ordine»; né tuttavia di piegarsi – magari sull’onda del Sessantotto – ad un «indeterminato sinistrismo nel quale i problemi reali della nostra società [sono] così scarsamente e così poco seriamente affrontati» (relazione di L. al Consiglio nazionale del PRI, 12-13 luglio 1969).
Nell’estate, alla caduta del governo Rumor III fa seguito la nascita del governo Colombo I (6 agosto 1970-17 febbraio 1972), sostenuto da DC, PSI, PSDI e dal PRI, presente in esso – fino al 14 marzo 1971 – con un ministro e due sottosegretari. L. chiede esplicitamente al nuovo Presidente del Consiglio un “libro bianco” sulla spesa pubblica, la revisione di alcune leggi di spesa, infine una razionalizzazione e revisione complessive – in base a un ordine di priorità – delle riforme da realizzare. Ritenendo non sufficienti le garanzie offerte da Colombo su questi temi, L. assicura l’appoggio del PRI all’esecutivo e accetta la designazione di Reale al Ministero di Grazia e Giustizia, ma non accoglie la proposta di Colombo, che vuole proprio L. al Tesoro.
Ben presto, tuttavia, prevale il dissenso di L. circa l’azione del governo, in particolare a proposito della politica estera. Già ad ottobre, infatti, egli è in disaccordo col Ministro degli Esteri Moro per quanto riguarda l’atteggiamento da adottare dinanzi al riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese: senz’altro da favorire ma, secondo L., senza dimenticare le ragioni di Taiwan e, soprattutto, senza dare l’impressione di abbandonare gli Stati Uniti in questa delicata vicenda. Identiche riserve, inoltre, egli ha a proposito della politica mediorientale dell’Italia in questo periodo, a suo giudizio fin troppo ostile alle ragioni di Israele.
Dinanzi alle rivelazioni di Nilde Iotti, concernenti il rifiuto opposto da Togliatti, nel 1951, a Stalin circa la proposta di dirigere il Cominform, L. sostiene che quel «no» può essere interpretato come «una prima indipendenza del comunismo italiano» dall’URSS; sebbene «il problema, l’angoscioso problema dell’Italia di oggi, ciò che condiziona ogni futuro è accertare se quel “no” nelle sue motivazioni e nelle sue più drammatiche implicazioni si è consolidato e ampliato nella coscienza dell’intera classe dirigente comunista. […] Se questo processo è avvenuto, qualcuno può anche pensare all’aprirsi di una prospettiva. Altrimenti un’esperienza politica e storica si può concludere nel peggiore dei modi» (VR, 4-5 aprile 1970).
Assiste con amarezza alla mancata designazione di Sergio Fenoaltea – ex ambasciatore italiano negli Stati Uniti, nonché ex azionista, amico e compagno di L. negli anni della lotta antifascista – a Presidente della CEE. La candidatura, caldeggiata da PRI e PSI – i quali convergono successivamente sul nome di Altiero Spinelli, sebbene alla fine risulti eletto il democristiano Franco Malfatti – registra un insuccesso sia in virtù del veto francese, per aver Fenoaltea «perorato strenuamente l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune [europeo]»; sia, tuttavia, a causa della sua posizione filoisraeliana e filoamericana, che lo ha posto in contrasto in passato, fra gli altri, anche con Fanfani, sì che secondo L. «una sinistra assai rozza e disinvolta e una destra che ha molte responsabilità nel mancato progresso della costruzione politica dell’Europa in tutti questi anni» non hanno perdonato a Fenoaltea «il fatto che […] non riesce a considerare gli americani nemici della libertà umana, ma piuttosto garanti della libertà e indipendenza dei popoli europei» (lettera di L. a Rumor, 29 maggio 1970, in Soddu 2008, p. 284).
Dopo la presentazione all’inizio dell’anno, da parte del governo, del “libro bianco” sulla spesa pubblica, il PRI replica con le Osservazioni al libro bianco sulla spesa pubblica, estremamente critico nei confronti dell’esecutivo e preludio all’uscita, nel marzo, dei repubblicani dal governo Colombo I sebbene non dalla maggioranza che lo sostiene in parlamento.
In un suo intervento alla Camera, il 25 giugno, affrontando il nodo del rapporto fra azione dell’esecutivo e richieste delle organizzazioni sindacali, L. afferma che «l’avere cumulato dall’“autunno caldo” la politica di rivendicazione in senso tradizionale con una politica di riforme ugualmente condotta in senso tradizionale, è stato uno degli elementi determinanti della seconda crisi economica; cioè per due volte noi abbiamo constatato che questa maniera di condurre da sinistra, dai sindacati operai, un’azione per le riforme del meccanismo di sviluppo, ha effetti contrari a quelli che si vogliono ottenere, nel senso che produce non una riforma del sistema ma la crisi del sistema economico» (DP, 2, p. 1264).
Guarda con preoccupazione, nell’estate, ai risultati delle elezioni regionali in Sicilia e delle comunali di Roma e di Catania, che vedono un successo del MSI, primo segnale d’una insofferenza del paese per gli effetti scomposti del “lungo Sessantotto” e per le crescenti tensioni sociali, ma anche rischio concreto d’una risposta reazionaria allo spostamento a sinistra d’una larga parte della società italiana, che va quindi governato e incanalato definitivamente entro un alveo democratico, sistemico.
Al XXXI Congresso del PRI – tenutosi a Firenze a novembre e che vede la riconferma, a favore della strategia indicata da L., d’una larghissima maggioranza di delegati – egli condanna l’avanzata nel paese, sull’onda delle lotte sociali e studentesche degli ultimi anni, d’una generica e indistinta “sinistra”, eterogenea nella sua composizione, che va dai gruppi extraparlamentari a settori del mondo cattolico, del sindacato, della cultura e che si risolve in un estremismo e in un massimalismo verbosi ma sostanzialmente vuoti sul piano programmatico. Questo clima rende perciò più difficile l’opera di revisione teorica e di riposizionamento politico in cui è impegnato il PCI e più problematica la scissione del PSU, sospingendo nuovamente su posizioni estremiste anche una parte del PSI. Tale situazione, inoltre, complica enormemente il processo di razionalizzazione della spesa pubblica, che infatti secondo L. non ha luogo in questa fase.
In occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, a dicembre, L. si oppone nettamente all’ipotesi Fanfani e, dinanzi alla successiva emersione di Moro, preferisce far convergere i voti repubblicani su Leone, eletto al 23° scrutinio anche coi suffragi di liberali, socialdemocratici e missini e che finisce per sopravanzare Nenni, sostenuto soprattutto da socialisti e comunisti. Questa scelta di L. viene duramente criticata a sinistra – ad esempio da Giorgio Amendola, ma anche da Altiero Spinelli – e interpretata come volontà di riorientare in senso centrista l’azione del PRI, sebbene egli la ritenga, al contrario, la semplice opposizione sia all’ipotesi d’un primo accordo, attorno al nome di Moro, fra DC e PCI e per il quale i tempi nondimeno non sono affatto maturi; sia al prefigurarsi, attorno alla figura di Nenni, d’una possibile alternativa di sinistra e che in quella particolare congiuntura avrebbe potuto assumere un significato massimalista che più volte, però, L. ha avversato.
L’aggravarsi della crisi economica, di cui secondo L. la classe politica non riesce a fornire una lettura convincente né quindi a dare una risposta adeguata, si avvita sempre più, sovrapponendosi pericolosamente a una crisi sociale e politica che minaccia di diventare esplosiva. Dopo la brevissima esperienza del governo Andreotti I (17 febbraio-26 giugno), monocolore DC che già nel febbraio non ottiene la fiducia al Senato e rimane in carica per il disbrigo degli affari correnti, il Capo dello Stato decide lo scioglimento anticipato delle Camere.
Le elezioni politiche, a maggio, vedono la tenuta della DC e del PSDI, la lieve crescita del PCI, il risultato non brillante del PSI – che alla Camera scende per la prima volta sotto il 10% – e del PLI, l’avanzata consistente del MSI – al 9% su scala nazionale – nonché il fallimento delle liste della nuova sinistra, che non entrano in parlamento. Il PRI ottiene il 2,8% alla Camera e il 3% al Senato, confermando il trend di crescita. L. è eletto deputato nella circoscrizione di Roma e, dei 15 deputati e 5 senatori che il PRI porta complessivamente in parlamento vi è, per la prima volta, anche il figlio Giorgio, eletto nella circoscrizione di Torino. Nella VI Legislatura, in qualità di deputato L. sarà membro dal 1972 al 1976 della III Commissione Affari Esteri ed Emigrazione della Camera.
La nascita del governo Andreotti II (26 giugno 1972-7 luglio 1973), con ministri democristiani, liberali, socialdemocratici, ha l’appoggio parlamentare dei repubblicani ed è visto da L. come il possibile inizio d’un risanamento delle finanze pubbliche in una situazione di emergenza per il paese. Andreotti propone al repubblicano Bruno Visentini il dicastero delle Finanze, ma L. non vuole legare direttamente il partito alle sorti di questo esecutivo, che egli successivamente giudicherà «un’altra delusione» (Intervista, p. 84).
Sin dal 1972 e poi ancora nel corso dell’anno seguente si fa più insistente la volontà di L. di sensibilizzare la classe politica e l’opinione pubblica a proposito della grave crisi economica e finanziaria in cui è piombato il paese, favorita anche dalla svalutazione del dollaro, nonché dalla crisi monetaria e da quella petrolifera. In relazione ai costi ormai insostenibili che ha raggiunto la spesa pubblica in Italia, L. scrive chiaramente, a più riprese, sull’organo del partito: «dire che siamo in una situazione keynesiana è volerci autoingannare; ci avviamo verso una condizione di tipo sudamericano»; là dove, iniziando a ragionare sempre più attorno alla categoria del “non governo”, egli sostiene che nella «crisi che è scoppiata a partire dal 1969 e [che] non accenna ad arrestarsi», con «fenomeni di involuzione economica, di arresto degli investimenti, di dilagante disoccupazione», gravissime colpe a ben vedere sono dei «governi che hanno rinunciato alle loro più elementari funzioni [e] la cui concezione dell’azione politica è sempre vecchia, opportunistica, non adeguata ai tempi» (ne La Caporetto economica, 1974, pp. 84, 96).
Già all’inizio dell’anno giudica insufficiente l’iniziativa complessiva del governo Andreotti II. Al Presidente del Consiglio, L. scrive una lettera aperta – pubblicata il 10 marzo da “La Voce Repubblicana” – nella quale lamenta che l’esecutivo non è mai pervenuto a «quell’analisi documentata e realistica della situazione che il PRI aveva chiesto a Te personalmente e che non è mai riuscita ad ottenere». Chiedendo a gran voce un nuovo “libro bianco”, poco dopo, nondimeno, L. bolla il governo guidato da Andreotti come «il governo dell’inflazione» (VR, 5 maggio 1973).
Il ritorno di De Martino alla segreteria del PSI, nell’autunno dell’anno precedente e poi, in giugno, l’esito del Congresso nazionale della DC che vede l’accordo tra Fanfani e Moro, favoriscono la ripresa d’una prospettiva di Centro-Sinistra, alla quale si giunge ufficialmente con la nascita del governo Rumor IV (7 luglio 1973-14 marzo 1974). Il PRI è presente nell’esecutivo con due ministri, uno dei quali è L., al quale è affidato il dicastero del Tesoro, in un esecutivo che vede anche Emilio Colombo alle Finanze e Antonio Giolitti al Bilancio. Confidando a Fanfani, inizialmente, di contare «molto sulla consapevolezza che tu hai della situazione e del mio difficile compito» (lettera dell’11 luglio 1973, in Soddu 2008, p. 291), L. cerca subito di intervenire energicamente sul risanamento della finanza pubblica e nei confronti di un’inflazione che all’epoca si attesta intorno al 20%.
Anche a causa d’una sostenuta ripresa della domanda interna, L. in qualità di Ministro del Tesoro consegue alcuni importanti risultati nel contenimento dei prezzi e per bloccare la svalutazione della moneta. Fissa la quota del disavanzo sostenibile a 8.600 miliardi di lire, mentre per governare il processo inflazionistico ritiene prioritaria la modificazione delle leggi di spesa esistenti e di quelle in corso di approvazione, nonché l’ottenimento di una nota di valutazione che dichiari compatibili con l’equilibrio del sistema i nuovi capitoli di spesa indicati per contenere il disavanzo. Cerca di coinvolgere i leader delle principali confederazioni sindacali per limitare drasticamente le rivendicazioni del settore pubblico, e il 6 agosto scrive loro che il rischio concreto è ormai quello di tutelare il solo «potere d’acquisto del pubblico impiego» e non quello «degli addetti al processo produttivo, a partire dalla classe operaia», col risultato eventuale di legare ad un «ciclo di rivendicazioni del pubblico impiego un ulteriore ciclo di rivendicazioni della classe operaia», sì che «il processo inflazionistico non sarà più governabile da nessuno» (in Soddu 2008, p. 292).
In un crescendo di critiche e di polemiche per queste sue decisioni – giudicate sovente impopolari, ad esempio in merito alle pensioni d’invalidità, che egli vuole riformare, rivedendo i criteri in base ai quali esse vengono concesse – L. tuttavia si scontra sempre più sia con la maggioranza e con il governo, che non sembrano volerlo supportare; sia con i sindacati, con i quali nel febbraio egli ha un duro confronto, in particolare con il Segretario Generale della CGIL, Luciano Lama.
Nel tentativo di «diminuire l’onere della spesa pubblica sulla Banca d’Italia e sulla Tesoreria», L. in qualità di Ministro del Tesoro vuole «far sì che il processo produttivo non risentisse di restrizioni di credito. Quindi cercai di non colpire il sistema produttivo. Però cercai anche di individuare le zone speculative sul credito e sul risparmio». In quest’opera necessaria, nondimeno, egli non solo mette un freno agli «aumenti di capitale ai gruppi finanziari», ma finisce anche per scontrarsi con Michele Sindona, un’opaca figura da cui L. riceve l’impressione di un «signore [che] giocasse sulla svalutazione della moneta e sull’inflazione interna. Quindi immediatamente, cercai di bloccarlo. […] Avevo notizia del suo gioco sui cambi e sulla svalutazione della lira, che aveva già determinato molte perdite. […] Lo fermai come era mio dovere [e] su quel punto comunque dovevo essere intransigente» (Intervista, p. 88).
Sempre come Ministro del Tesoro, ottiene l’istituzione della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB), nata ufficialmente con la legge 7 giugno 1974, n. 216. Propugnando e contribuendo ad ottenere questa importante riforma, L. in questo campo porta a compimento un percorso iniziato nel 1955, al convegno degli Amici del Mondo in cui era stato uno dei relatori.
Il 28 febbraio L. si dimette dalla carica di Ministro del Tesoro, ufficialmente a causa di un dissenso con Giolitti – titolare del Bilancio – e con il PSI a proposito d’un prestito al nostro paese da parte del FMI, e le cui «condizioni restrittive di spesa pubblica e di credito» poste dal Fondo all’Italia sembrano a L. «sopportabili» e «neppure completamente commisurate alla gravità della crisi. […] Quelle condizioni furono criticate da Giolitti e dai socialisti. Lo stesso Presidente del Consiglio Rumor mi domandò se potevano essere modificate. […] Di conseguenza mi dimisi». In realtà, all’origine delle sue dimissioni permangono ragioni più strutturali, inerenti alla «spesa pubblica corrente, cui mi costringevano i sindacati, il parlamento e i colleghi di governo» e che «rappresentava il mio cruccio più profondo» (Intervista, pp. 93-94).
Rifiutandosi di avallare un modo di governare la crisi economica e finanziaria e i rapporti con le parti sociali che egli considera errato e controproducente, nelle dimissioni di L. vi è anche tutta la sua insoddisfazione per l’incapacità della classe politica nell’avviare un risanamento finanziario che possa al contempo prefigurare un radicale cambiamento del modello di sviluppo, incentrandolo maggiormente sulla soddisfazione dei consumi collettivi, e non individuali: un passaggio, questo, che L. ritiene da tempo di grande importanza e che costituisce un corollario fondamentale dello stesso auspicato risanamento.
Nei referendum del 12 e del 13 maggio si schiera – come del resto l’intero PRI – contro l’ipotesi di abrogare la legge sul divorzio, approvata per la prima volta in Italia nel 1970. Ritiene un grave errore politico, da parte di Fanfani, l’impegno così diretto e personale in favore dell’abrogazione, che vede peraltro la DC a fianco del solo MSI, mentre le restanti forze politiche – compreso il PLI – e soprattutto tutta la sinistra, dai radicali ai comunisti, prevalgono largamente nella difesa della cosiddetta legge Fortuna-Baslini. Ciononostante da questa pur sonante vittoria referendaria L. non ne evince – a differenza di molti altri politici ed intellettuali di sinistra – l’avvenuto superamento della centralità democristiana e quindi la possibilità d’una immediata alternativa “laica” comprendente il PCI, il quale secondo lui non ha affatto completato l’approdo alla democrazia e l’ancoraggio ai valori occidentali.
Frena quindi gli slanci “frontisti” presenti nella sinistra italiana ed anzi, in seguito alla fine della breve esperienza del governo Rumor V (14 marzo-23 novembre), tripartito DC-PSI-PSDI a cui il PRI ha garantito il solo appoggio parlamentare, L. offre una sponda ad Aldo Moro nel tentativo di rilanciare e rinvigorire il percorso riformatore e – in quella particolare congiuntura economica – risanatore. Ha quindi un ruolo fondamentale nella formazione e nella nascita del governo Moro IV (23 novembre 1974-12 febbraio 1976), bicolore DC-PRI che si avvale dell’appoggio parlamentare di PSI e PSDI. L. in questo esecutivo è Vicepresidente del Consiglio, con il compito di coordinare la politica economica, mentre la presenza repubblicana è corposa: oltre a L., quattro ministri e quattro sottosegretari.
Propugna una forte discontinuità nelle linee programmatiche e politiche del governo Moro IV, al quale chiede di non fossilizzarsi nella formula del Centro-Sinistra, secondo L. di per sé desueta in quella fase. Dopo l’approvazione del documento sulla politica economica – nell’elaborazione del quale sono ascoltati esperti e tecnici sia della maggioranza, sia dell’opposizione, ma che avviene fra diversi contrasti – L. ritiene molto grave l’involuzione complessiva del paese, aggravata dall’indebolimento delle stesse strutture portanti dello Stato, dalla Direzione Generale del Tesoro alla Banca d’Italia, «che per anni ha supplito a molte deficienze, [ma che] oggi […] non è nelle migliori sue condizioni» (lettera a Moro, 22 luglio 1975, in Soddu 2008, p. 300). Pensa inoltre che l’Italia non abbia colmato in troppi campi il divario rispetto ad altri paesi industriali, nei quali alcune dinamiche di spesa e soprattutto alcune riforme appaiono maggiormente consolidate.
Riafferma, non a caso, l’importanza della politica dei redditi e indica quale luminoso esempio il patto sociale che in Gran Bretagna il governo laburista ha appena sottoscritto coi sindacati. All’uopo il PRI pubblica in opuscolo il dibattito televisivo che il 22 ottobre 1974 L. ha avuto con il deputato laburista Denis Walters e nel quale egli afferma che la politica dei redditi deve intendersi come «sostitutiva dell’intervento monetario» e, soprattutto, che nel creare «uno strumento di controllo dell’espansione del reddito a tutti i livelli» si deve operare per ottenere un potenziamento e una necessaria riforma del welfare, non la sua dismissione (Il dibattito La Malfa-Walters… 1974, p. 8).
La politica riformatrice e al contempo di rigore, caldeggiata all’epoca da L., non trova però un clima favorevole nel paese: continua infatti ad essere molto duro il confronto di L. coi sindacati, anche con la UIL e con il suo Segretario Generale, il repubblicano Raffaele Vanni, in carica dal 1969. L’accordo sulla scala mobile e sul cosiddetto punto unico di contingenza, raggiunto nella prima metà dell’anno dalla FIAT e dalla CGIL, in particolare da Gianni Agnelli e Luciano Lama, indebolisce la prospettiva accarezzata da L.: il 30 giugno egli scrive a Francesco Cossiga che «da quel momento […] ho visto il governo cui apparteniamo logorarsi in trattative nelle quali lo spirito corporativo e particolaristico continua a prevalere come non mai» (in Soddu 2008, p. 301); mentre il 22 agosto «mandavo una lettera aperta al Presidente del Consiglio Moro, richiamando la sua attenzione sul rinnovo dei contratti. E dicevo: se noi rinnoviamo i contratti pagando un certo prezzo, è inutile che diciamo di voler fare una politica di investimenti» (Intervista, p. 97).
Per quanto riguarda la spinosa questione delle nomine bancarie, si oppone alla designazione di Ferdinando Ventriglia – appoggiato dalla DC – quale successore di Carli alla Banca d’Italia ed appoggia invece con successo il nome di Paolo Baffi. Come in occasione del caso Finambro, l’anno precedente, ma anche del Monte dei Paschi di Siena e poi del Credito Italiano, L. continua ad opporsi ad influenze opache in ambito bancario, interessato con forza in quegli anni dalle manovre degli affiliati alla loggia massonica P2.
L’intera presenza repubblicana nell’ambito del governo Moro IV, peraltro, oltre alla personale azione di L., va ritenuta di grande rilievo per quanto riguarda l’impulso riformatore: dalla legge Reale sull’ordine pubblico – importante risposta istituzionale al fenomeno del terrorismo e che genera tuttavia polemiche, soprattutto a sinistra – alla riforma del diritto di famiglia, voluta sempre dal Ministro di Grazia e Giustizia ed ex Segretario del PRI; dalla riforma urbanistica realizzata dal Ministro dei Lavori Pubblici, Pietro Bucalossi, alla nascita – ad opera di Giovanni Spadolini, Ministro senza Portafoglio – del Ministero dei Beni Culturali e dell’Ambiente. Infine l’azione di Bruno Visentini alle Finanze, che contempla fra i vari provvedimenti presi anche la riforma tributaria.
Sul piano internazionale, L. continua a muoversi entro le coordinate che hanno caratterizzato il suo percorso politico nel dopoguerra, ovvero la ferma volontà di coniugare europeismo ed atlantismo. Anche in questo quadro si rinnova e si vivifica la sua attenzione per l’opera di revisione iniziata dal PCI, al quale quindi L. guarda all’epoca non solo per ragioni strettamente economiche. In una intervista concessa all’“Espresso” alla fine di ottobre, egli è infatti impegnato a prefigurare una transizione dei comunisti italiani nel campo occidentale magari più lunga del previsto ma necessariamente “morbida” e indolore, essenzialmente perché «i sovietici potrebbero interpretare il mutamento come un invito ad accentuare la loro pressione e a riprendere un moto espansivo che avrebbe conseguenze negative sullo stesso PCI. E anche dalla parte opposta, cioè negli Stati Uniti, l’alterazione dell’equilibrio interno italiano potrebbe essere male interpretato e stimolare, non diciamo il governo americano, ma alcuni gruppi americani ad iniziative lesive della nostra indipendenza nazionale e della nostra democrazia interna» (in Soddu 2008, p. 303).
Al XXXII Congresso nazionale del PRI, tenutosi a Genova tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, L. sembra tuttavia accelerare nel confronto col PCI e nella sua relazione congressuale accosta la parola «ineluttabilità» al compromesso storico, preoccupandosi nondimeno di qualificare quella possibile ed imminente svolta politica: innanzi tutto – e questo deve per lui essere il compito maggiore del PRI, appartenente ab illo tempore alla sinistra democratica ed ormai matura forza di governo – favorendo l’inserimento del PCI entro una solida dinamica riformatrice, che tenga conto della coeva crisi economica, nonché della necessità di ripensare il modello di sviluppo e soprattutto il welfare. In questa occasione, peraltro, L. non si nasconde i timori e le insidie che una simile sfida imporrà per lungo tempo, non solo ai comunisti o all’Italia: «L’Occidente sarà impegnato in un arduo processo di trasformazione che riguarda il tenore di vita di vaste masse popolari già coinvolte e impegnate in un ininterrotto processo di sviluppo economico e sociale. Questa trasformazione richiederà sacrifici, adattamenti, rinunce. È sperabile che essa avvenga senza compromettere le basi generali sulle quali si fonda la vita dell’Occidente» (in L’altra Italia. Documenti…, 1975, p. 242).
Al termine dell’assise L. conferma il controllo del partito e un largo consenso al suo operato fra i delegati, ma lascia la segreteria a Oddo Biasini e viene proclamato Presidente del PRI.
Si aggrava inoltre, sempre fra il 1974 e il 1975, la sua condizione di salute ed egli in questo torno di tempo è costretto a sottoporsi a due interventi agli occhi.