Biografia 1959-1963
Nel gennaio L. assume la direzione de “La Voce Repubblicana”, quotidiano ufficiale del PRI, e la conserva fino al 1962. Anche in tal caso, inizia un’opera di rinnovamento e di rilancio complessivo del giornale, ampliando la rete dei collaboratori, fra i quali, durante la sua direzione, vi sono Gino Luzzatto, Carlo Antoni, Elena Croce, Licisco Magagnato, Francesco Gabrieli, Rosario Romeo.
La caduta del governo Fanfani II (1° luglio 1958-15 febbraio 1959) – visto da L. quale «primo tentativo di rompere il clima di ordinarissima amministrazione in cui la DC e le forze che con essa collaboravano, sono cadute dal 1953 in poi» (VR, 27 febbraio 1959) e a cui il PRI ha garantito l’appoggio parlamentare – si inserisce in una fase politica complessa. Essa vede un nuovo brusco rallentamento nella riunificazione fra PSDI e PSI, nonché il coagularsi già attorno al governo Segni II (15 febbraio 1959-25 marzo 1960) di un composito schieramento conservatore, comprendente la Confindustria, la destra liberale e liberista, ampi settori della Chiesa cattolica e della stessa DC, fino all’estrema destra monarchica e missina, perlopiù all’insegna dell’anticomunismo ma anche della paura per la possibile affermazione – grazie al Centro-Sinistra – d’una stagione di riforme sociali ed economiche.
L. guarda con speranza al giovane e nuovo segretario della DC, Aldo Moro, nominato ad ottobre al Congresso di Firenze, nonché – nel travaglio vissuto all’epoca anche dai democristiani, sempre più divisi al loro interno fra la prospettiva d’una apertura al PSI ed un’altra, invece, di netto spostamento a destra dell’asse governativo – alla sinistra di Base.
Nel novembre, dopo lo storico Congresso di Bad Godesberg della Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD), durante il quale vi è la separazione definitiva della socialdemocrazia dall’ideologia marxista, L. saluta in quell’evento non un ritorno al passato, bensì al contrario l’acquisizione da parte del socialismo tedesco – e, in prospettiva, dell’intera sinistra europea – di strumenti politici e teorici adeguati alla realtà della seconda metà del Novecento.
Il fallimento, il 16 febbraio, della giunta regionale siciliana guidata da Silvio Milazzo – che L. aveva sperato potesse rimanere in carica sostenuta dai partiti della sinistra democratica, anticipando così una possibile, identica svolta a livello nazionale – e la successiva caduta del governo Segni II, spostano ancora più destra il baricentro del nuovo governo Tambroni (25 marzo-26 luglio), monocolore DC apertamente sostenuto da monarchici e missini, ma che vede l’opposizione di PCI, PSI, PSDI, PRI e PLI.
Al XXVII Congresso nazionale del PRI, tenutosi a Bologna all’inizio di marzo, la maggioranza rappresentata da Reale e L. si conferma vincitrice, ottenendo il 58% dei delegati, mentre la corrente pacciardiana di Difesa repubblicana si ferma al 40,5%. Pacciardi rimane quindi in minoranza; con lui – nel 1964 espulso dal partito – vi è da parte di L. un autentico redde rationem a Bologna. Nel suo intervento congressuale, inoltre, L. giustifica la predilezione per una decisa svolta di Centro-Sinistra inquadrando la crisi italiana in un contesto europeo: l’Italia, infatti, è il solo paese «ad avere l’alternativa immediata e politicamente concreta o di ritornare a una posizione intimamente involutiva (centrismo) o addirittura conservatrice sino a diventare reazionaria (governi di destra) o di realizzare una politica di sinistra democratica. E se questa politica si realizzasse, essa avrebbe grandi ripercussioni di influenza sul resto dell’Europa occidentale» (Resoconto del XXVII Congresso del Partito Repubblicano Italiano…, 1962, pp. 64-65).
Durante la breve vita del governo Tambroni, L. critica duramente il Presidente della Repubblica Gronchi, colpevole secondo lui di aver favorito uno scenario drammatico, che vede addirittura la riemersione, nell’area della maggioranza, di forze apertamente reazionarie, la cui presenza produce infatti – seppur per breve tempo – tensioni politiche e sociali enormi, al termine delle quali lo stesso esecutivo guidato da Tambroni è costretto a rassegnare le dimissioni, nell’estate.
A causa d’un secondo distacco della retina, che lo costringe a un lungo periodo di riposo, da giugno a novembre, L. non ha una parte di rilievo nella nascita del governo Fanfani III (26 luglio 1960-21 febbraio 1962), monocolore democristiano che si giova dell’appoggio esterno di PSDI, PRI, PLI e rappresenta il tramonto definitivo della possibile soluzione a destra della crisi del centrismo.
La lentezza con la quale si realizza, soprattutto a causa della DC, l’approdo al Centro-Sinistra, costantemente evocato ma troppo spesso rinviato – «la svolta, cioè la battaglia del centro-sinistra, è durata più delle due guerre mondiali», dirà L. in un suo intervento a Milano nell’aprile 1962 (in Soddu 2008, p. 235) – lo rende dubbioso a proposito dell’effettiva volontà innovatrice di Moro e Fanfani, ma anche del gruppo dirigente del PSDI. Pur continuando a perseguire la strategia della necessaria apertura ai socialisti, si fa strada in L. il timore che quell’ingresso nell’area di governo possa significare in prospettiva una semplice estensione della maggioranza, ovvero dell’area della “legittimità”, quindi un consolidamento del potere “partitico” e burocratico della DC: stabilizzazione e continuità, dunque, non innovazione e impulso riformatore.
Temendo questo scenario, in una lettera a Enrico Mattei del 9 gennaio egli infatti scrive: «Io ho un’esperienza politica di oltre 35 anni, svolta, per la maggior parte del tempo, in periodo clandestino e sempre su una posizione democratica. Pochi, come me, conoscono le debolezze della struttura politica, sociale, culturale della società italiana e la forza espansiva del comunismo. […] Nel corso di questa mia ormai troppo lunga attività politica, ho visto frantumarsi infinite energie morali di natura democratica, sostituite da infinite ambizioni, desideri di potere, spregiudicatezza, indifferenza verso la corruzione e la degenerazione della vita pubblica. Il consuntivo di quello che è stato perduto è troppo grande, perché io sia ottimista in genere, […] di fronte a situazioni che ho sperimentato e di cui conosco la consistenza. Posso attendere un atto di estrema consapevolezza politica, ma non più di questo» (in Soddu 2008, pp. 213-214).
Al Congresso nazionale della DC, tenutosi a Napoli alla fine di gennaio, prevale la linea di Moro, favorevole alla nascita d’un governo di Centro-Sinistra. Poco dopo PRI e PSDI escono dalla maggioranza che sostiene il governo Fanfani III e il 2 febbraio il Presidente del Consiglio rassegna le dimissioni. Alla fine del mese, ottenuto il reincarico, si forma il governo Fanfani IV (21 febbraio 1962-21 giugno 1963), con l’appoggio esterno del PSI e un esecutivo che vede la presenza di DC, PRI, PSDI. Nasce il Centro-Sinistra e in questo governo L. è Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, dicastero che terrà sino al 21 giugno 1963.
Sintesi e al contempo momento culminante della sua attività di ministro nonché, più in generale, della sua larga concezione riformatrice, è la Nota aggiuntiva alla Relazione generale sulla situazione economica del paese, presentata in parlamento il 22 maggio e nell’elaborazione della quale L. si avvale della collaborazione, fra gli altri, di Paolo Sylos Labini, Francesco Forte, Giorgio Fuà e Pasquale Saraceno. Ritenendo parziali le riforme realizzate durante i primi anni Cinquanta e ormai inderogabile il problema del Mezzogiorno, attraverso la Nota L. auspica «uno sviluppo programmato [e] una visione globale» dell’economia italiana, nel quadro di una programmazione che la congiuntura favorevole – «l’espansione degli investimenti al 22,9% e l’aumento del prodotto lordo nazionale all’8,2% in termini reali» – può trasformare nello strumento più idoneo per «risolvere alcuni fondamentali problemi del paese», anche attraverso un «primo accenno alla “politica dei redditi”» (Intervista, pp. 60-61). I principali obiettivi della Nota sono il mantenimento d’un ritmo elevato dello sviluppo realizzatosi nel dopoguerra, il superamento degli squilibri tradizionali nel paese – fra ceti e fra aree geografiche – nonché l’edificazione d’un moderno welfare italiano: in estrema sintesi, «orientare l’evoluzione economica e sociale in modo da soddisfare le esigenze di civiltà democratica e di progresso». Nella Nota, inoltre, di grande rilievo è la netta predilezione per l’incremento dei consumi pubblici, ritenuti «una delle forme più desiderabili di aumento del reddito reale e di miglioramento del tenore di vita, [e che] risultano più equamente distribuibili fra tutti i membri della collettività» (Ministero del Bilancio, La programmazione economica, Vol. 2, 1967, pp. 124, 126).
Un altro punto qualificante e in egual modo “operativo” di questo documento, è la creazione di una «commissione di programmazione con la partecipazione dei sindacati operai e delle organizzazioni imprenditoriali», decisione accettata – pur con qualche distinguo – dai sindacati confederali ma mal digerita dalla Confindustria: secondo L., infatti, quest’approccio – poi abbandonato dal suo successore al Bilancio, Antonio Giolitti – non solo deve evitare preventivamente l’inasprirsi dello scontro sociale, ma anche dar vita ad un grande strumento democratico e ad una sede istituzionale nella quale discutere «tutta la problematica dello sviluppo e delle riforme» (Intervista, p. 62).
Rilevando resistenze sempre più tenaci – e trasversali – all’impianto riformatore caldeggiato dalla Nota, L. è in disaccordo con le modalità attraverso cui, da parte dell’esecutivo e della maggioranza, si perviene nel corso dell’anno alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, cavallo di battaglia del PSI, qualificante la sua adesione al Centro-Sinistra, ma avversata dal Governatore della Banca d’Italia Carli e da una parte della DC. La nazionalizzazione e la conseguente nascita dell’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica, infatti, a giudizio di L. sono passaggi nei quali finiscono per prevalere logiche essenzialmente “burocratiche” e perfino clientelari, che rendono difficile il consolidarsi d’una moderna imprenditorialità pubblica, facilitando anzi quella che si rivelerà sempre più una peculiarità italiana: l’approvazione di «riforme [fatte] con spirito corporativo» (Intervista, p. 64).
Si oppone, nella primavera, all’ipotesi dell’elezione di Fanfani alla Presidenza della Repubblica, il cui tentativo L. interpreta come diametralmente opposto a quello che per lui, per i laici e per i socialisti è all’epoca il nome preferibile, ovvero Saragat, sopravanzato però dal candidato sostenuto soprattutto da Moro, Antonio Segni, eletto Presidente l’11 maggio anche con l’appoggio di monarchici e missini.
Al XXVIII Congresso nazionale del PRI tenutosi a Livorno all’inizio di giugno, assente Pacciardi – coinvolto nel cosiddetto “scandalo di Fiumicino” e indisponibile ad avallare qualsiasi apertura a sinistra dei repubblicani – la mozione di L. e Reale ottiene il 95,1% dei voti dei delegati, quindi comincia a configurarsi per il PRI quel percorso che lo condurrà progressivamente ad una profonda svolta culturale, politica, organizzativa, da L. già indicata in passato. Nel suo intervento congressuale, L. difende e illustra la scelta del Centro-Sinistra da parte del PRI, sostenendo che i repubblicani non possono più rimanere ancorati al carattere «difensivo» di una maggioranza centrista ed hanno il anzi il dovere sia di «uscire dalla trincea delle cose che non si devono più difendere e battersi per la creazione di condizioni nuove»; sia – attraverso un’iniziativa riformatrice in grado di dar vita a «una grande e avanzata democrazia moderna» – di condizionare la stessa evoluzione del PCI, avendo perciò «sicurezza che i nostri valori entrino nel mondo comunista, senza che sia necessario sbandierare un anticomunismo d’accatto» (VR, 6-7 giugno 1962).
Fin dal 1961, in accordo con Jean Monnet, L. si oppone alla politica gollista, da lui ritenuta nefasta per l’integrazione e per l’unificazione europee, quindi è critico a proposito d’un riavvicinamento franco-tedesco – culminato, il 22 gennaio, nella firma del Trattato dell’Eliseo da parte di Charles De Gaulle e Konrad Adenauer – che L. considera in realtà intriso di pulsioni nazionaliste, da ambo le parti. In questa fase, anche in qualità di ministro del governo Fanfani IV, egli caldeggia in chiave antigollista un rapporto preferenziale del nostro paese con il Regno Unito, nel quadro di un’auspicata adesione di quest’ultimo alla Comunità Economica Europea (CEE) – che, pure, non vi sarà nei tempi e nei modi prefigurati da L. – mentre contrasta duramente l’apertura di De Gaulle alla Spagna, ancora franchista, e l’ipotesi d’un suo ingresso nella CEE.
A tal proposito, in una nota consegnata il 2 febbraio da L. a Edward Heath, Lord del Sigillo incaricato agli affari europei, nel corso di una visita in Italia del premier britannico MacMillan, egli asserisce infatti che «tanto la politica internazionale [di] De Gaulle, quanto l’indirizzo adottato in Germania [Ovest] dal Cancelliere Adenauer, corrispondono a una linea di pensiero e di interesse della destra continentale filoautoritaria» (in Soddu 2008, p. 224), alla quale è pertanto necessario opporsi.
Alle elezioni politiche di marzo il PRI – alleato con il Partito Sardo d’Azione – incrementa i propri consensi al Sud, in particolare in Sicilia e in Sardegna, ma sul piano nazionale non va oltre l’1,4% alla Camera e lo 0,8% al Senato. L., candidato sia a Bologna sia a Palermo, è eletto deputato in entrambe le circoscrizioni, optando per la prima.
Le elezioni vedono un complessivo rafforzamento del Centro-Sinistra, sebbene non vi sia ancora una partecipazione diretta del PSI al governo: dopo le dimissioni, nel maggio, del governo Fanfani IV e il fallimento d’un mandato esplorativo affidato dal Presidente della Repubblica ad Aldo Moro – il quale cerca di costituire un governo organico di Centro-Sinistra ed è però criticato da L., che giudica intempestiva questa manovra poco prima della scadenza della legislatura – nasce il governo Leone I (21 giugno-4 dicembre), breve monocolore DC che si avvale dell’astensione di PSI, PRI e PSDI. In seguito all’esito del Congresso nazionale del PSI, ad ottobre, che approva la partecipazione dei socialisti ad un esecutivo di Centro-Sinistra, Leone si dimette e gli succede il governo Moro I (4 dicembre 1963-22 luglio 1964). Fino al 1968, Aldo Moro guiderà nel complesso e consecutivamente altri due esecutivi di Centro-Sinistra, tutti con la presenza di ministri democristiani, socialisti, repubblicani e socialdemocratici.
Nel corso della IV Legislatura, L. in qualità di deputato è Presidente di diverse commissioni parlamentari: in particolare, fra il 1964 e il 1965, della V Commissione Bilancio e Partecipazioni Statali; nonché, fra il 1964 e il 1968, della Commissione speciale per l’esame del ddl n. 1686 “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno 1965”; infine, fra il 1965 e il 1968, di una Commissione speciale avente per oggetto la conversione in legge di un dl recante interventi per la ripresa dell’economia nazionale.